U2 Essentials: “War”

Erano passati solo due anni dall’album d’esordio, Boy, e gli U2 rischiavano già di essere scaricati dalla loro casa discografica. La Island Records, infatti, aveva dato loro un ultimatum: dopo il passo falso del secondo album, October, il terzo album doveva risollevare le vendite e soprattutto lo status della band, altrimenti sarebbe stata la fine.

War ha dentro la paura di quattro ragazzi di poco più di vent’anni ma, soprattutto, ha la rabbia di chi non accetta che le sorti della propria esistenza siano stabilite da uomini in giacca e cravatta arroccati dentro i palazzi del potere. Nell’affrontare il tema della guerra Bono ebbe l’intuizione di parlare di pace e fu infatti il bianco ad essere il colore simbolo dell’album: le sessions fotografiche di Anton Corbijn ebbero luogo in Svezia, nel dicembre 1982, dove la band venne immortalata in un evocativo bianco e nero che faceva risaltare i loro cappotti scuri sulle sterminate vallate innevate. Il palco per il tour, pensato da Willie Williams, aveva una schiera di bandiere bianche poste dietro la batteria. La resa era il tema che attraversava tutto il disco: «molte lotte e molti contrasti hanno a che fare con l’ego e l’ambizione. Il principio della resa è quello di fare un passo indietro», disse Bono durante un’intervista nell’aprile del 1983.

Gli U2 in Svezia, fotografati da Anton Corbijn, durante le riprese del video “New Year’s Day” [15 dicembre 1982]

Sulla copertina troviamo ancora una volta Peter Rowen – il bambino che già era comparso sull’album Boy – ma stavolta con uno sguardo sconvolto, privo della candida innocenza con cui accompagnava il primo lavoro della band. L’infanzia, con War, era finita, spazzata via dall’atroce consapevolezza che la morte può sconvolgere l’esistenza delle persone da un momento all’altro e che, a deciderlo, erano soggetti al di fuori della nostra portata. La violenza dei conflitti, la spietatezza della vita, avevano corrotto l’animo del bambino che adesso aveva uno sguardo da adulto, carico di odio e terrore.

Erano gli anni dei The Clash e del combat-rock. I concerti sembravano battaglie ideologiche e politiche. Le armi erano chitarre, bassi e batterie e i cantanti erano menestrelli elettrici che esorcizzavano paure e disperazione esistenziale. L’album fu la consacrazione della band, e segnò il loro definitivo impegno politico.

«Nel 1982 ovunque ci voltavamo c’era una guerra» – Bono, 1983


|SUNDAY BLOODY SUNDAY|

Gli U2, all’inizio dei lavori per il terzo album, decisero di prendersi un periodo di vacanza dopo l’estenuante tour-de-force del “Boy Tour” e dell'”October Tour” – 258 concerti in poco meno di due anni. Il solo a non volersi prendere una pausa fu The Edge che si ritagliò del tempo per lavorare alle nuove canzoni. Le bozze dei futuri brani nacquero dentro una casa fuori Dublino, a Howth, dove vivevano Bono e sua moglie Alison: gli altri tre membri della band pagavano loro l’affitto e in cambio gli era permesso utilizzare la sala come sala prove.
Quando Bono ed Ali partirono per la Giamaica, in viaggio di nozze, The Edge si ritrovò in solitaria a dedicarsi ai nuovi brani: essendo l’unico musicista rimasto in studio per il chitarrista fu la prima vera occasione in carriera per cimentarsi come autore, fu una sfida personale per vedere se valesse qualcosa anche nel campo della composizione. Lavorò alle demo di Seconds e Drowning Man, fece molti progressi con New Year’s Day e poi… e poi si fece completamente sopraffare dalle notizie che provenivano dalla sua terra: le bombe, i morti, gli attentati, i Troubles che infuriavano.
Preso dalla rabbia e dallo sconforto, mise giù un testo il cui primo verso diceva, “Don’t talk to me about rights of the IRA, UDA…” (Non parlatemi dei diritti dell’IRA, UDA...), era una canzone palesemente contro il terrorismo irlandese. Quando Bono tornò dal suo viaggio gli venne l’idea di contrapporre la “Bloody Sunday” del 1972 alla Domenica di Pasqua per creare un forte contrasto sia religioso che politico.

Il testo abbozzato inizialmente da The Edge fu cambiato, reso meno diretto verso le forze in gioco poiché gli U2 erano ben consapevoli che non esistevano colpevoli totali ed eroi totali in una faccenda tanto complicata come la liberazione dell’Irlanda; al contrario fu messa particolare attenzione non sulle ragioni politiche/militariste ma sull’unica cosa veramente importante e che passava, costantemente, in secondo piano: gli effetti devastanti che la guerra stava provocando sulla popolazione civile, “And the battle’s just begun/There’s many lost, but tell me who has won?/The trenches dug within our hearts/And mothers, children, brothers, sisters/Torn apart” (“E la battaglia ha inizio/Ci sono state molte perdite, ma dimmi chi ha vinto?/Le trincee scavate dentro i nostri cuori/E madri, bambini, fratelli, sorelle/Separati).

The Edge creò l’iconico riff utilizzando un amplificatore Fender — che rende i suoni più gelidi, duri rispetto ai suoni caldi dell’amplificatore Vox che aveva sempre utilizzato precedentemente — e un uso molto limitato dell’effetto delay. La musica doveva rimanere ancorata a terra, essere meno eterea, piuttosto più incisiva e tagliente. Gli U2 iniziarono a parlare la lingua dei Clash con il loro combat rock.

Sunday Bloody Sunday fu suonata per la prima volta a Glasgow — 1 dicembre 1982 — ma fu la sua esibizione a Belfast, il cuore del terrorismo irlandese, a rimanere nella leggenda. Era il 20 dicembre 1982. Bono disse al pubblico che quel brano parlava di loro, della gente d’Irlanda, e che nel caso non fosse piaciuto non l’avrebbero suonata mai più. Sappiamo tutti come andò a finire.

Articolo di approfondimento: “Fuck Revolution: i quattro ragazzi che sfidarono l’IRA

|SECONDS|

War è a tutti gli effetti l’album dove The Edge si mise più in gioco sino ad allora. Oltre ad essere stato l’autore di molti brani — come detto precedentemente — per la prima volta si prestò anche come voce principale. In Seconds, infatti, è la sua voce a raccontare la psicosi che la guerra fredda provocò in tutte le nazioni. La guerra nucleare era una minaccia seria, reale, ed il mondo sembrava sprofondare sempre di più nella follia dei conflitti armati: pensiamo alla guerra in Libano, la guerra delle Falkland, il conflitto tra Iraq e Iran o quello in Afghanistan.
Margaret Thatcher in Gran Bretagna e Ronald Reagan negli Stati Uniti d’America simboleggiavano la politica interventista degli anni ’80, dove l’aggressione militare sembrava l’unica soluzione ai problemi di politica estera.

Nell’anno in cui War uscì nei negozi, il 1983, la tensione era arrivata ad un punto di quasi non ritorno. Reagan fece il famoso discorso contro l’Unione Sovietica descrivendola come “l’impero del male” e annunciò la costruzione di uno scudo spaziale per difendersi da un ipotetico attacco nucleare sovietico. Ma la crisi più grave ci fu proprio quell’anno con l’esercitazione “Operation Able Archer” da parte delle forze NATO, esercitazioni che furono interpretate da Mosca come una reale minaccia tanto da far decollare una decina di bombardieri nucleari, mettere in allarme 70 rampe di lancio di missili SS-20 e mobilitare i sottomarini anch’essi armati con armi nucleari. Insieme a quella di Cuba questa fu la crisi più grave della Guerra Fredda e ci mancò poco che la guerra infuriasse.

Seconds ha dentro tutto questo. La paura che tutta la tua vita possa venir spazzata via dalla decisione di qualcun altro, qualcuno che ignora completamente il dolore che può causare attraverso le sue decisioni in nome del patriottismo e del nazionalismo più becero, qualcuno che può decidere cosa sia giusto o sbagliato al posto tuo. Il famoso pulsante rosso di Reagan fu la spada di Damocle che tenne in bilico milioni di vite.

Ci vuole un secondo per dirsi addio“, canta The Edge. La fragilità dell’esistenza in una frase.

|New Year’s Day|

“Nulla cambia a Capodanno”. Detto da un ventitreenne è una frase davvero terribile. Con quel verso, che apre il brano, l’anno nuovo viene visto come qualcosa di già vecchio e stantio sovvertendo la sensazione di novità e speranza. In effetti il futuro era qualcosa che, nell’opinione pubblica, era ormai visto come un’utopia. Ingabbiati nella minaccia nucleare la mente delle persone viveva in uno stato di prigionia senza sbarre ma alcuni — come Lech Wałęsa — viveva davvero in una cella fatta di ferro e mattoni.

Wałęsa è il fondatore di un movimento di protesta polacco denominato “Niezależny Samorządny Związek Zawodowy” ma meglio conosciuto come Solidarność. Questo sindacato nacque in seguito agli scioperi di Danzica del 1980 ed ebbe la forza di riunire sotto un’unica organizzazione diverse associazioni contrarie all’influenza dell’Unione Sovietica sulla Polonia. Wałęsa organizzò Solidarność in modo che si perseguisse la non-violenza e si contestasse il partito unico al governo mediante scioperi, manifestazioni, movimenti sociali e incontri culturali. Nel dicembre 1981 Wałęsa fu arrestato e Solidarność, nel dicembre 1982, fu dichiarato illegale. Wałęsa fu scarcerato solamente dopo undici mesi, il 14 novembre 1982, ma fu costretto ai domiciliari sino al 1986.

Bono scrisse New Year’s Day come tributo a Lech Wałęsa e alla sua battaglia. Il testo è stato costruito dal punto di vista di quest’ultimo immaginando i suoi pensieri durante la notte tra il 31 dicembre 1981 e l’1 gennaio 1982 passata dietro le sbarre. Il verso “Nothing changes on New Year’s Day” (“Nulla cambia a Capodanno”) è carico di un duplice significato qualora si considera la condizione che all’epoca dovette sopportare Wałęsa. Il nuovo anno non portò la libertà sperata e, allo stesso modo, il mondo rimase nel caos.
Ma il brano racchiude anche un messaggio potente, “I will be with you again” (“Io sarò di nuovo con te”), descrivendo come la speranza e la determinazione dell’umanità non può essere estirpata e vinta. Il Capodanno non cancella le ingiustizie ma è da sempre il simbolo di un nuovo inizio, di una rinascita, “Though torn in two/We can be one” (“Anche se rotti in due/Noi possiamo essere tutt’uno”).
Aspirare alla pace in tempo di guerra non è da tutti. Innalzare una bandiera bianca sopra quelle delle nazioni, all’epoca, era un atto di coraggio estremo. Bono, nella terza strofa del brano, tagliata nella versione singolo, canta: “And so we are told this is the golden age/And gold is the reason for the wars we wage” (“E così ci hanno detto che questa è l’età dell’oro/E l’oro è la ragione delle guerre che facciamo”), un gioco di parole molto efficace che sottolinea come l’umanità preferisca distruggersi per il controllo delle materie prime piuttosto di combattere per il bene comune.

Queste parole erano pronunciate da un ragazzo di ventitré anni, un ragazzo che cantava di Wałęsa con una bandiera bianca sulla spalla mentre urlava che quella era l’unica bandiera che contava davvero, l’unica per cui valesse la pena combattere. Era una questione di vita o di morte, era una battaglia portata avanti da parole e chitarre.

|Like a song…|


Il giornalista musicale Jon Pareles si espresse così sulla rivista Rolling Stone riguardo all’album October:

«E’ impossibile prendere gli U2 sul serio quanto loro fanno con se stessi. Quando il cantante Bono se ne esce con versi come ‘Nessuno è più cieco di chi non vuol vedere’ o ‘Apri la porta, apri la porta’ vorrei prenderlo in disparte e auguragli una rapida guarigione dall’adolescenza. […] Quando una canzone degli U2 ha più di due accordi (uno dei quali Mi minore, la tonalità più facile), è uno shock. Ancora, il suono di The Edge, aiutato dal produttore Steve Lillywhite, è potente almeno quanto sono stupidi i testi.»

Il quarto brano di War è una risposta a commenti come questo. Gli U2 erano giudicati come un gruppetto di ragazzini che giocavano a fare i punkettari cantando di Dio, dell’adolescenza, di madri e di argomenti giudicati al di fuori del punk. La new-wave e il pop anglossassone — con le loro melodie spesso sdolcinate — stavano monopolizzando certi temi facendo passare l’opinione che il punk non potesse parlare di amore o di sentimenti.

«Credo che “Like a Song…“, disse Bono, “fosse indirizzata ai critici che non avevano capito nulla di noi, che sostenevano che non fossimo abbastanza punk. E’ un argomento ricorrente perché la gente casca in continuazione nella trappola di dover essere ribelle a tutti i costi. E’ diventato ormai un tormentone.»

In effetti Like a Song… non parla di ribellione in senso stretto, ossia di sollevarsi contro il potere dominante in nome di una rivoluzione; parla, piuttosto, di ribellarsi contro l’uniformità di pensiero. Il testo esorta a pensare con la propria testa e di non dover per forza indossare una divisa o una spilla per far parte di uno schieramento. Il dubbio diventa il mezzo attraverso il quale si arriva al raziocinio mettendo da parte le ideologie. Essere per forza un ribelle non serve a nulla, lo esprime proprio Bono nel testo: “Angry words won’t stop the fight/Two wrongs won’t make it right” (“Parole rabbiose non fermeranno il combattimento/Due torti non faranno una cosa giusta”).

Alla fine, la guerra genera solamente “A generation without name, ripped and torn” (“Una generazione senza un nome, strappata e divisa”), dove a rimanere orfani sono i ragazzi del domani. Da qui nasce la consapevolezza degli U2 che la rivoluzione armata è solamente un altro punto di vista, rispetto al nemico, per legittimare la violenza. Non serve, serve il compromesso. “A new heart is what I need” (“Un nuovo cuore è ciò di cui ho bisogno”).

«Se chiami un album “War” penso sia importante attraversare il tema. Il tema di quest’album è la resa; smorzare il contrasto. Molte lotte e molti contrasti hanno a che fare con l’ego e l’ambizione», disse Bono. Ma già dal titolo della canzone, Like a song…, si metteva in campo il controsenso del brano e della musica in generale. Queste idee rimanevano dentro una canzone, incastonate in un contesto ideale e poco incline alla realizzazione.

In un certo senso è il tormento di ogni artista. Cantare di giustizia, di pace, di solidarietà mentre i tuoi simili continuano ad ammazzarsi a vicenda. Mark Chapman uccise John Lennon per questi motivi.

|Drowning Man|


Drowning Man è stata scritta da Bono per essere dedicata al bassista Adam Clayton. Il titolo è enigmatico in quanto, all’interno del testo, non viene mai citato: esso deriva da una commedia nello stile di Samuel Beckett che il cantante irlandese stava scrivendo, non la completò mai, ma l’immagine di un uomo che stesse annegando era molto potente. Così quando il suo amico Adam — nonché testimone di nozze — stava attraversando un periodo molto difficile, Bono non si tirò indietro e mise su carta la sua dichiarazione d’amore e amicizia.

Drowning Man è quindi a tutti gli effetti un inno all’amicizia, una composizione perfetta, dove l’amore fraterno tra Bono e Adam raggiunge vette di poeticità immense. “Take my hand/You know I’ll be there/If you can /I’ll cross the sky for your love” (“Prendi la mia mano/Lo sai che sarò là/ Se tu puoi/Io attraverserò il cielo per amor tuo”). Il testo risente moltissimo dei salmi biblici e della formazione religiosa del cantante. Adam, come è noto, è il meno religioso della band e proprio questa sua mancanza di fede, unita alla sua indole autodistruttiva, lo ha spesso portato a delle crisi interiori che han trovato sfogo in un massiccio consumo di alcol e droga. Ma piuttosto che condannare l’atteggiamento negativo dell’amico, Bono scrisse per lui un’ode sublime.

E’ in questo brano che il cantante sperimentò una tecnica che poi farà completamente sua nell’album successivo, The Unforgettable Fire, ossia quella dell’improvvisazione chiamata “dono delle lingue”, un’esperienza mistica che aveva conosciuto frequentando la setta religiosa Shalom. Questa tecnica permette di avvertire un impossessamento, come se una forza esterna prendesse il controllo del tuo corpo e parlasse attraverso la tua voce. Improvvisando, Bono iniziò a lasciar scorrere le parole immergendosi nei propri sentimenti e lasciando fluire ogni tipo di sensazione. Quello che provò in quel momento lo troviamo in Drowning Man.

Grazie al violino di Steve Wickham e al lavoro certosino della band, il brano è una delle composizioni più belle mai partorite dagli U2.

|THE REFUGEE|

The Refugee è l’unico brano del disco nel cui testo si cita espressamente la guerra. Sin dai suoi primi viaggi negli Stati Uniti d’America, Bono si interessò alle comunità di immigrati che popolavano la grande nazione americana: neri, cubani, italiani e ovviamente irlandesi. La consapevolezza di far parte di un popolo costretto a spostarsi in altri Paesi per sopravvivere — con le conseguenti influenze culturali — mise in moto un processo che portò gli U2 a rinnovare la musica irlandese oramai fine a se stessa ed eccessivamente conservatrice.

Bono fu influenzato dalla visione di un documentario intitolato “Atlantean” dove si sosteneva che i Celti fossero in realtà popolazioni antiche, originarie del Nord-Africa, che si spostarono sino in Europa portandosi dietro le proprie tradizioni. Il brano, infatti, è stato costruito con un incedere tribale sostenuto da un ritmo martellante di Larry e una linea di basso pulsante di Adam. Il cantato è aggressivo nelle strofe per poi addolcirsi nel ritornello, creando una dinamica interessante.

In un album che parla di guerra era inevitabile che si parlasse della vera tragedia che provoca ogni conflitto armato: i rifugiati. Il testo parla dell’America come una terra promessa per chi vive nelle zone di guerra, ma nasconde anche una critica sottotraccia: l’America è anche quella nazione che, molto probabilmente, ha devastato le nazioni d’origine di molti immigrati che adesso vivono sul suo territorio. Ciò crea un corto circuito identitario non indifferente.

Il verso centrale del brano è il seguente, “War her papa go to war/He gonna fight but he don’t know what for” (“Guerra il suo papà va in guerra/Andrà a combattere, ma non sa per cosa”), mettendo in luce il totale no-sense dei conflitti armati nonché l’assenza totale di una ragione logica per combattere. Pensiamo alle guerre nel Sud-America, in Africa o nel Sud-Est asiatico portate avanti dagli Stati Uniti.

La protagonista della canzone rimane così senza un padre poiché chiamato alle armi; la madre — rimasta con lei — ogni sera attende di rivedere suo marito per poter andare via da quel luogo infernale, sognando quell’America tanto desiderata. Il sogno americano diventa così un’idealizzazione per le popolazioni più povere e devastate dai conflitti, quando, in realtà, l’America l’hanno dentro casa attraverso i proiettili e le bombe.

Il brano mette in luce come il nazionalismo sia in verità un’invenzione storica per legittimare le guerre, e di come, in fin dei conti, discendiamo tutti da popolazioni in movimento che si influenzarono tra loro. Siamo tutti profughi, siamo tutti figli di persone che son fuggite da guerre e conflitti. Siamo il prodotto millenario di incontri culturali e di contaminazioni. Per fortuna non esiste alcuna purezza razziale, non esiste alcuna perfezione.

I frutti puri impazziscono. Esiste solo la crudeltà umana.

|Two Hearts Beat As One|

La permanenza di Bono in Giamaica, durante il viaggio di nozze, fu anche l’occasione per pensare ad una vita a due. Adesso che era diventato ufficialmente il marito di Alison, conciliare la vita da rockstar a quella di coppia diventava più difficile rispetto al recente passato. Le responsabilità aumentavano ed il cantante sentiva in qualche modo il peso di una dualità interiore che potevano entrare in conflitto. Prima ancora di scrivere With or Without You ecco quindi che Two Hearts Beat As One ne anticipava i temi parlando proprio della difficile convivenza tra il far parte di una band e il condividere la propria vita con la persona amata.

“I don’t know, I don’t know which side I’m on” (“Io non so, non so da quale parte sto”) è chiaramente una confessione a se stesso dell’incapacità di decidere se considerarsi un cantante o un marito a tutti gli effetti. Un conflitto interiore non trascurabile per un ragazzo appena ventenne che doveva ancora capire cosa fare della propria vita. Il testo, come detto, venne scritto in Giamaica mentre la coppia era ospite nella villa di Chris Blackwell, il proprietario della Island Records. L’aver concepito quelle parole in quel particolare momento, aggiunge al testo l’urgenza di dover confessare alla propria amata la duplice identità racchiusa nel proprio animo: “I can’t stop to dance/Honey, this is my last chance” (“Non posso fermare la danza/Dolcezza, questa è la mia ultima occasione“), il che era maledettamente vero!

Gli U2 si trovavano ad un bivio con la Island Records avendo anche accumulato un debito esoso con quest’ultima. L’album October non aveva avuto il successo sperato, e qualora il disco successivo si fosse rivelato anch’esso un mezzo fiasco, la casa discografica avrebbe potuto seriamente pensare di scaricare la band. Si trattava davvero dell’ultima chance che gli U2 potevano giocarsi.

Il brano è una canzone d’amore vestita con un groove funkeggiante e fu il secondo singolo estratto dall’album. Un bel modo per dire alla propria partner che, da quel momento in poi, dovrà contendersi il marito con il mondo intero.

|Red Light|

Red Light ha un testo criptico e può avere varie chiavi di lettura. La prima potrebbe essere quella di una storia d’amore tra una prostituta e un suo cliente affezionato, dove, quest’ultimo, vuole strapparla alla prostituzione in nome di un amore più profondo e sincero.
La seconda, invece, è dal punto di vista della prostituta che vede nel suo cliente un tormento senza via d’uscita. Lei rappresenta così l’unico modo per l’uomo di fuggire dalle sue paure e dai suoi demoni.
La terza, più personale, vuole che il testo sia riferito ancora una volta ad Adam Clayton, nello specifico ai suoi eccessi e alle sue scappatelle durante i viaggi della band.

Quale che sia l’interpretazione più giusta è certo che Bono iniziò a pensare al brano quando la band visitò per la prima volta Amsterdam poiché rimase molto colpito dalle ragazze in vetrina. Le luci rosse del quartiere e l’atmosfera surreale agli occhi del ragazzo irlandese — cresciuto in un contesto altamente restrittivo per quanto riguardava il sesso — furono uno spunto per immaginarsi una storia interessante dietro quei corpi in vendita. La sessualità veniva così argomentata attraverso una canzone d’amore che ricorda molto da vicino il brano Roxanne, dei Police, per le tematiche affrontate.

La carica sessuale del brano traspare anche dai cori sensuali delle Coconuts che, in fase di registrazione, fecero venire i bollenti spiriti ai quattro giovani musicisti:

«Entrarono, e chiesero di abbassare le luci per registrare e alla fine ci ritrovammo con lo studio illuminato di rosso. Non ricordo quale, ma una di loro iniziò a sfilarsi il top. Non era l’inizio di uno spogliarello, stava solo togliendosi la maglietta ma noi non eravamo abituati a cose del genere. Ricordo che la temperatura dello studio rimase bollente per tutta la durata della registrazione. Tutti se ne andavano in giro a cercare acqua fredda. Eravamo così ingenui!»

|Surrender|

A New York Bono incontrò una ragazza che viveva per strada, si prostituiva ed era dipendente dall’eroina. Conduceva quella vita da dieci anni e il cantante irlandese, in qualche modo, si sentiva attratto da quella persona apparentemente emarginata ma che, in realtà, aveva scelto consapevolmente come vivere. A Sadie — questo è il nome fittizio che il cantante ha usato nel testo — andava stretto il concetto di diventare qualcosa d’imposto dalla società: una brava ragazza, una moglie rispettabile e una madre premurosa.

L’arresa della quale canta Bono si discosta da quella tradizionale — e quindi anche da quella biblica — per avvicinarsi di più ad un concetto ambivalente che tornerà prepotentemente negli anni ’90: arresa vuol dire far entrare nella propria vita ogni aspetto che caratterizza l’esistenza, non è un arrendersi armonioso o confortante. Al contrario è perdere tutto ciò che abbiamo per iniziare a vivere davvero, dove la libertà totale conduce anche a luoghi di perdizione. Arrendersi vuol dire accogliere tutte le contraddizioni del mondo.

Così come Sadie ha deciso di vivere per strada — facendosi beffe di concetti come la rispettabilità o le regole morali imposte dalle società occidentali — Bono canta di un’arresa fortemente contaminata anche da aspetti negativi. Nella canzone si cita anche il suicidio, “She got herself up on the 48th floor/Gotta find out/Find out what she’s living for” (“Arrivò su al 48esimo piano/Per scoprire/Scoprire per cosa stava vivendo”), dove il salto nel baratro simboleggia l’omicidio che dobbiamo compiere contro noi stessi in nome di una libertà negata.

«In un certo senso siamo tutti costretti a buttarci», dice Bono, «ecco di cosa parla: dell’idea che se voglio vivere, per me stesso devo essere morto». Gli spettri di album come The Joshua Tree e ancor di più di Achtung Baby — con i suoi sentimenti duali — iniziavano a farsi strada.

Fu un enorme passo in avanti per la scrittura di Bono, iniziandosi a distaccare prepotentemente da quella osservata in October, quest’ultima così pesantemente infusa nella religione cattolica e da una visione a tratti manichea di concetti come speranza, fede, devozione e amicizia. Non era ancora il tempo per svelare completamente la faccia oscura dell’amore, ma in Surrender abbiamo un primo accenno di questo processo.

|40|

40 fu registrata alle sei del mattino con la band chiusa a chiave nello studio di registrazione per impedire ad un altro gruppo di Dublino di entrare. Gli U2 avevano finito il tempo a disposizione ma volevano registrare ancora un brano, un brano semplice che avrebbe poi chiuso l’album.

Il bassista Adam Clayton in quel momento era assente, così The Edge imbracciò il suo strumento e creò la suadente e delicata linea di basso: ancora oggi, durante i concerti, per suonare 40 The Edge e Adam si scambiano gli strumenti per ricordare proprio come nacque la canzone. Nonostante fosse un orario quasi proibitivo, Bono cantò il testo — ispirato al Salmo 40 — con una serenità ultraterrena: il brano ha un’atmosfera bucolica e possiede la bellezza accecante di una visione mistica. In appena due minuti si raggiunge uno stato superiore, e la voce del cantante suggerisce un benessere trascendentale.

Pensare che sia stata scritta in appena un’ora fa capire quanto la band fosse capace di farsi trasportare dall’ispirazione e dalle proprie emozioni. Il lungo viaggio della realizzazione di War terminò quella mattina. La mattina di un giorno che iniziò con un inno immortale che chiuderà buona parte dei concerti degli U2: “I waited patiently for the Lord/He inclined and heard my cry/He brought me up out of the pit/Out of the miry clay” (“Ho aspettato pazientemente il Signore/Lui si è chinato ed ha sentito il mio grido/Mi ha tirato su, fuori dalla fossa/Fuori dall’argilla melmosa”), canta Bono.

Se è vero che War irrompe con una dichiarazione di guerra alla crudeltà umana, l’album poi finisce con un’ode alle alte sfere celesti e ad una pace oramai divenuta casa. E se Sunday Bloody Sunday si chiedeva “How long must we sing this song?” (“Per quanto tempo devo cantare questa canzone?”) attraverso una domanda carica di dolore e morte, anche 40 si chiede la stessa cosa augurandosi, al contrario, che quest’inno di pace possa invece allungarsi in eterno.

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